Monday, August 27, 2007

Di e su C.B.

Lezioni sull'arte
di Carmelo Bene

"Accidenti ai quattrini!
accidenti alla cartaccia-moneta: questa orrenda matrigna dell’ARTE; di tutte LE ARTI! ... mestiere infame, questo dell’ARTISTA, da sempre, nell’eterno quotidiano della vita invivibile, indissolubilmente coniugato alla piccolo-borghese fatalità del MISERTABILE! Coniugato a tal punto che quest’ultimo, poveraccio-spregevole termine potrebbe benissimo sostituire l’altro (cioè quello dell’ARTISTA) in un più intransigente dizionario ... = A un individuo abbiente e rispettabile non verrebbe mai in testa di vivacchiare con ciò che è detto ARTE.
Arte! = il più astruso e stupido tra gli espedienti! ... Non venitemi a dire che si frequenti un’arte proprio perché stregati dalla implicita STUPIDITÀ. .. Non è così! ... Chiunque è in grado d’essere un idiota restandosene quieto e scioperato! ...
Che mai patologia perversa costringe il MISERABILE a consegnarsi ai voti claustrali delle Muse?!? ... A chiodarsi all’infamia della crocetta estetica?!? ... Son tante, troppe le motivazioni. E tutte mica tanto decorose ... a cominciare dalla vanità esecrabile dello stimolo maternale insensato dis-umano ... Al famigerato ruotare attorno al solito perno dell’ESSER PADRE DELLE PROPRIE OPERE! ...
FARINA DEL SUO SACCO! ...
PARTO DI SUA ESCLUSIVA FANTASIA! ...
INTELLETTIVA MATERNITÀ VIRILE! ... ETC. = come fosse possibile, scontato, l’essere autori d’un qualche cosa! ...
L’AUTORIALITÀ è un doppio falso: nell’idea che la origina e nell’artificio che quell’idea stravolge ... realizzandola! ...
Un altro impulso alla minacciosa professione estetica è senza dubbio costituito dall’ANSIA individuale d’ESPRIMERSI, cioè manifestarsi attraverso la produzione di materiali eterogenei, infiocchettati, quanto — si crede — basti a suscitare l’emozione spettatoriale (simultanea al configurarsi dell’OGGETTO-BELLO) e all’attenzione della stima CRITICA ... Ma se codesto - chimiamolo RISULTATO ARTISTICO — è così vilmente subordinato al successo decretato dalla visione altrui e all’apprezzamento critico, ... la fantomatica ARISTOCRAZIA del simbolico LAVORO è degradata a vilissimo POSTO DI LAVORO, se non addirittura svergognata a DOPO-LAVORISTICO galeotto sollazzo ... Senza, per giunta, trascurare il fatto che, sulla scorta insana di eccezionali precedenti illustri, ... la massa degli addetti all’ARTIFICIO è spesso incauta vittima di alterazione psichica, stordimento alcolico-narcotico, fino alla più gratuita autodistruzione! ...

Quando alla dissennata volontà d’esprimersi si coniuga il tarlo ambizioso della COMUNICAZIONE, ecco instaurato il circolo vizioso dell’estetica contemporasnea ... Estenuante ricerca di un uditorio con vocato a subire tanto insistente esibizionismo! ...
La STORIA DELL’ARTE, salvo rarissime eccezioni che la ECCEDONO, appunto, è una routine consolatoria e decorativa ... E qui nessuno ha voglia d’essere consolato ... Anzi, intende restare inconsolabile ... DECORO e non DECOR! ...
Non è qui il caso di commiserare ancora la malafede dell’usurata VOCAZIONE AL BELLO = o al BELLO-BRUTTO che sia! ... = perché qualsiasi scappatella estetica, qualunque impresa artistoide è già IDEOLOGICAMENTE condizionata dal PRE-CONCETTO del BELLO-IN -SÉ ... Altro che SCELTA E LIBERTÀ espressiva! ... L’INTENTO è già ESITATO! ...

... L’ARTE come servizio sociale? ... = ma è un servirsi degli altri al solo scopo d’uno sfrontarto-personalissimo tornaconto nel riconoscimento pubblico! ... = Già!, il riconoscimento pubblico = Artisti (miserabili!) e relativi (miserabili!) fruitori! Lo schizzinoso, platonico "DISTINGUO"
tra originali, simulacri e copie! ... = riflesso innumere di replicanti! ... Genia clonata! ...
Ehh!, l’ARTE! ... = rompicapo demenziale nel de-cretino favoreggiamento d’ogni MINISTERO dei BENI CULTURALI, istituito a vezzeggiare le morte CROSTE d’AUTORE, al solo scopo di scongiurare la vertigine del presente impensato della vita ... ad arrangiare lager museali per turisti che abusano del proprio tempo incomprensibilmente LIBERO!...
Vediamo d’uscirne evitando inutili gineprai. ... = Tutto il falso problema della produzione aristica è ... sempre questo pervenire a questa o quella FORMA e comunque, solamente a UNA FORMA (identificata al suo contenuto); ma questa FORMA è nient’altro che una traccia residuale di un chissà che ALTROVE, tuttavia, inespresso e puntualmente tollerato e spacciato dall’artista! ... =
= Che fare? È chiaro, quanto meno nell’intento e nel metodo: ... = Bisogna ECCEDERE le FORME ... Una sottrazione, questa: che si può ottenere anche tramite un sistema additivo / evitando insulsaggini come
il QUADRO BIANCO ...
il TEATRO NEL TEATRO ...
la MUSICA FORTUITA ... ETC. =
= Una SENSAZIONE (non è forse questo l’unico auspicabile riconoscimento d’ogni prodotto estetico?) ... Una SENSAZIONE incorpora TUTTI i nostri sensi ... e ciò mi suggerisce la figura d’un artefice che, attendendo a un’OPERA, vi proceda con il concorso d’ogni artificio disciplinare, rifiutando qualsivoglia SPECIFICO D’ARTE ...

= Così operando (nel senso, appunto, chirurgico d’un coroner), evita di scempiare il suo oggetto-cadavere, amputandolo di questo o di quell’organo! ... e ... proprio in questa apprensione quasi tensione interdisciplinare merita a questo artefice la sacrosanta INDISCIPLINA ... rigorosissima indisciplina ... la GRAZIA, insomma che, sola, ultracosciente necessità ... lo affranca dalla penosa individuabilità che contrassegna il genere specifico dell’ARTISTA ... = "Quando si dice: io non sono pittore, è allora che bisogna dipingere!" (Van Gogh) ... = Né PITTORE, né MUSICO, né LETTERATO, ATTORE ETC ... =
È questa estrema, totalizzante, GLOBALITÀ d’ARTEFICE ... a spacciare qualunque RELATIVITÀ D’ARTISTA, decretando anche il tramonto definitivo della CRITICA SETTORIALE ... Ecceduta l’arte (della Storia dell’Arte!) ... è finalmente vanificato ogni imbellettamento critico dell’ESISTENZA ...

Se, come ho detto altrove a proposito della VOCE (fonesi scritta e orale) ... della VOCE "variopinta" nei pittogrammi della SCRITTURA, (è visibile anche tantissima MUSICA! ... - eccettuata la schopenhaueriana VOLONTÀ CIECA in ROSSINI - ), mi fastidia, soprattutto nello specifico delle ARTI VISIVE, questa volgarità dell’IMMAGINE come mediazione ..., come tara ereditaria delle categorie ontologico-linguistiche del pensiero ... = La mia frequentazione cinematografica è ossessionata dalla necessità continua di frantumare, maltrattare il VISIVO, ... fino, talvolta, a bruciare e calpestare la pellicola! ...


M’è riuscito filmare una MUSICALITÀ delle immagini ... che non si vedono, per di più seviziate da un montaggio frenetico! ...
Questa mia fobia dell’immagine non è iconoclastia fine a se stessa ... = l’ho dimostrato in scena eccedendo il teatrino del testo, fino a separare il TEATRO dallo SPETTACOLO ..., così come nella TEORIA della CRUDELTÀ di Antonin Artaud, = quel che conta nell’ARTE non è il prodotto artistico, ma il PRODURSI dell’artefice in rapporto al quale (qui Jacques Derrida è impeccabile) l’OPERA non è che una ricaduta residuale ... un escremento (nell’etimo) = ciò che si separa e cade... dall’organismo vivente ..., dalla vita! ... l’Arte è La Vita ... come IRRIPETIBILITÀ dell’EVENTO ... vivente una volta sola! ...
E perciò l’opera è il materiale morto ... è il cadavere ... evacuato dall’evento! ... Il destino d’ogni opera d’ARTE non è nell’OPERA = È ARTE ... ALL’OPERA!, ... è il prodursi dell’artista che trascende l’OPERA ... (è la SENSAZIONE! che ci investe davanti alle tele di Francis Bacon) ...
Un GENIO è soprattutto colui che eccede le sue opere ... , = L’atto dell’esecuzione artistica è più determinante dell’opera esitata ... (e qui cito Derrida alla lettera) ... = Il genio lascia delle tracce, delle opere, dei residui; ... ma quanto è veramente geniale e artistico si trova nel DUCTUS, ... nel gesto della firma, più che in ciò che resta della firma ... Da qui =
= Ogni ARTE sarebbe SENZA OPERA, ... e, forse, ... senza artisti.
Ormai ridotta a una sorta di COLLAGE DI MASSA, qualunque impresa ARTISTICA ha la sorte che merita! ...
= dall’EVASIONE dalla vita, alla LABIRINTITE INTELLETTUALE! ...
= dalla reiterazione del TEATRO TOTALE WAGNERIANO, alle traveggole del MULTIMEDIALE!
= dalla volubile GRATIFICAZIONE del MERCATO, ... alla burocrazia della COMMITTENZA DEMOCRATICA. ...
L’ARTEFICE non è mai AUTORE d’una propria opera. È di per sé (semmai!) un capolavoro vivente."


Carmelo Bene, due ricordi
di Jean-Paul Manganaro e Piergiorgio Giacché

Jean-Paul Manganaro
" Era umile, sembra strano dire questo, ma era uno umile. Era un’umiltà straziata e vera, storica, come la si potrebbe pensare oggi in un santo antico, un’umiltà armata, sì, un’umiltà armata di spada, armata di dolore.
Era uno umile e indifeso, di cui si sentiva che andava protetto, e bisognava proteggerlo, proteggerlo dalla propria umiltà. Egli era antico, di un’antichità ormai difficile da reperire nei volti e nei gesti degli altri, contraffati nella smorfia di questo tempo smorfioso, in cui bisogna somigliare a qualcuno, era uno antico, di un’antichità da repubblica romana, un’antichità antica, in cui era trascritta la forza e la violenza, della sua umiltà umana. Sembra strano dire questo, ma egli era uno tenero, di una tenerezza maniaca, di una tenerezza antica, non di smancerie, ma di poche parole, fatta di cose che si sanno, che non c’è bisogno di ridere. Ed era anche profumato di una santità. Sembrava forse arroganza questo essere nello stesso tempo e umile e antico e tenero e profumato, ed era un’antica difesa: egli chiamava a sé questa protezione che nasceva dall’umiltà, dall’antichità, dalla tenerezza. Dico questo perché è ciò che di lui non si sa. Di lui si sa tutto il resto, ma non si sa questo, quanto fosse tutto questo per essere il resto, quello cioè che è stato in scena, sempre, Pinocchio e Amleto, e Macbeth, Tamerlano e Salomè fino alla parte estrema di sé data al teatro, Pentesilea o Achilleide, tra l’uno e l’altro, col silenzio estremo delle voragini, con le spiegazioni che restano al di qua d’ogni atto dell’essere teatro fino all’estremo. Ridire Shakespeare o Laforgue, farsi nemici e amici, amare, amare Shakespeare facendo finta di non amarlo, era discussione di uno umile; ripensare Laforgue come risposta all’apparente disamore era amore ulteriore.
Egli era amore del teatro, un amore tanto passionale da essere violentemente possessivo e incontrollabile, eccedente. Egli era anche eccessivo, di un’eccessività antica, stendhaliana, che non esiste più, che non si ritrova più neanche nelle biografie stendhaliane, che si ritrova ancora solo nelle Chroniques italiennes, carattere antico e arcaico che guarda a distruggere per verità, una verità senza problemi, senza dialettiche, senza aforismi, senza metafore. Grandezza arcana della scena di Carmelo, bambino, cresciuto bambino, vissuto bambino, grandezza di un incedere con la violenza forsennata e potente, con un ultimo guizzo d’impero negli occhi. Animula vagula blandula, hospes comesque corporis, nec dabit jocis…"

Piergiorgio Giacchè
" Non c’è un dopo Carmelo Bene. E non perché alla morte di un personaggio grande e di una persona cara si voglia assurdamente fermare il tempo, ma perché non c’entrava per nulla con il "nostro" tempo. E ancora, non perché non sia mai stato attuale o presente, ma perché ostinato nemico di quel tempo cronologico, che si dispone lungo la linea della storia passata e corre verso il futuro della società.
Non si tratta quindi di fermare il tempo, perché Carmelo è stato sempre abitante e demiurgo del tempo sospeso e del nessun luogo del teatro. Del "suo" teatro, va detto, giacché molti altri teatri si lasciano volentieri contaminare dal tempo storico e dal luogo sociale: si credono specchi del mondo e si fingono mezzi di comunicazione a disposizione del pubblico. Nel suo teatro invece, non si dava alcuna prospettiva né si predicava una qualunque complementarità: la scena e la platea si fronteggiavano invalicabili e incomunicabili, a meno di non passare per quel punto verticale dove s’incontrano l’ascolto e la visione, l’ascolto del pubblico e la visione dell’attore. Mai viceversa.
Non c’è neanche un prima Carmelo, a guardar Bene. Per quanto ci si sforzi di cercare le eredità e i condizionamenti, le filiazioni e le profezie che devono per forza averlo generato, nessuno è riuscito per davvero a infilarlo nella storia e a spiegarlo con la geografia: l’attore postumo dell’ottocento (Garboli) o le puglie della minoranza come divenire (Deleuze) non sono che suggerimenti riusciti, suggestioni parziali che accendono un’interpretazione ma non chiudono la definizione del "fenomeno Bene". Per lui, il ‘prima’ della società e dalla cultura è ammassato in un unico ingombro repertoriale, dentro il quale il suo genio aveva facoltà di scompigliare e ravvivare (ironico e impertinente ovvero rigoroso e solenne) tutto quel che toccava e non usava… provocando sussulti nei corpi morti dei testi e resuscitando perfino la carne dei poeti. Majakowski e Shakespeare, Leopardi e Campana, Dante e D’Annunzio hanno ritrovato suono e senso, passando a miglior vita dentro la magica macchina attoriale. Ma non è dei suoi sconcertanti spettacoli che si vuole trattare: ci sarà tempo — molto del nostro tempo e della prossima storia — per rivisitare e ridesiderare, appoggiandosi alle pagine e ai film e ai dischi rimasti, l’incanto e la lezione delle sue ‘operazioni’.
Abitava un castello moresco… dovunque se ne andasse e comunque operasse. Lo spazio-tempo della scena (o della pellicola o della pagina…) non era che una zona franca dove poter alloggiare — momentaneamente — il suo altrove. Per questo in palcoscenico si mostrava fastidiato e molesto, per questo da ogni palcoscenico voleva e doveva sparire in continuazione, suscitando irritazione o stupore. Anche lui del resto, mentre celebrava incessantemente la divertita amarezza del non esserci mai, si irritava o stupiva di come potesse ancora esistere un teatro di rappresentazione della realtà e un pubblico abbonato alla conferma del proprio ruolo e della propria identità. Contro quel pubblico è l’attore che ha fatto del suo meglio, ma non gli è riuscito che di attrarre e distrarre pochi spettatori devoti: quelli che si sono lasciati prendere e perdere nell’altrove irrappresentabile e impossibile e indicibile, che poi è da sempre il nessun luogo e il senza tempo verso cui dovrebbero tendere tutti i veri artisti… Ma quanti sono poi?
Cosi, nella solitudine del suo non-luogo e nel vuoto del suo fuori-tempo, Carmelo Bene da subito aveva deciso di identificarsi: era lui quel castello moresco, come confessa in Nostra Signora dei Turchi con una battuta finale di comica sconsolata follia: se non fossi un palazzo, mi crederebbero!
Ma della sua arte così grande e della sua vita tanto breve non si finirà mai di parlare, magari a sproposito. E intanto Carmelo era, come tutti, anche un personaggio e una persona. Di diverso da tutti non aveva poi la grandezza ma l’altezza, che senza insegnare nulla obbliga ad apprendere il modo giusto di fare o di guardare: verso l’alto e in sottomissione o abbandono, contrapponendo l’umiltà verticale delle virtù all’orizzonte consolatorio dei sentimenti. Di diverso da tutti, prima ancora della qualità del suo essere, valeva una diversa modalità dell’esistenza, o se si vuole dell’uso e della spesa che si fa di se stessi.
Il Personaggio pubblico, ad esempio, era una sua armatura, sempre più cosciente, per non essere metabolizzato da nulla e non essere gestito da nessuno. Carmelo Bene poteva comparire in ogni circo mediatico, senza mai appartenervi: all’opposto dei tanti animali esotici o domestici che affollano l’aia televisiva che oggi sostituisce la società italiana, Carmelo attraversava quella scena mondana come un ospite alieno, insensibile al mercato dei complimenti e allo scambio delle convenienze. La pubblicità o l’impopolarità che gliene è derivata, non l’ha mai richiesta ma semmai l’ha strappata come l’involontario bottino delle sue incursioni. Dei troppi di cui si dice che bucano il video è stato l’unico che l’ha sempre ferito, fino al cortocircuito televisivo memorabile di una trasmissione che continua da vent’anni a parlare ma che quella sola volta ha fatto davvero parlare di sé.
Dopo di lui, una folla di servi insolenti o di altezzosi incompresi hanno finto di somigliarli, ma appunto non c’è un dopo Carmelo…
La sua Persona non la mostrava mai ma la indossava sempre. Forse non sono tanti a conoscerla perché le persone si rivelano nell’incontro del fare e non nel commercio del vivere, ma chiunque la riconosce dal suono e dal dolore della sua voce.
Chi l’ha conosciuto nel breve decennio della sua ultima vita — delle tante che amava computare e cancellare — l’ha vista ritrarsi nel significato etimologico di maschera funebre, non applicata ma emersa dal corpo, come fosse la tracimazione di un’alterità intima, tanto assoluta quanto incontenibile. Carmelo non voleva essere io e la sua persona era davvero l’altro: la sua e la nostra mancanza che s’affaccia e s’incorpora solo in chi s’è davvero purificato dal peccato dell’identità.
Dopo di lui, si ritornerà magari ad ammirare il più piccolo sforzo di alterità o perfino ad adorare qualche novello tronfio super-io. Ma, scriveva un giovanissimo Brecht prima di prender forma e di mettersi a far formazione, Non vi fate sedurre… Ché non c’è niente, dopo."


Per Carmelo Bene. Un ricordo.
di Romeo Castellucci

"Avevo circa quindici o sedici anni quando ho visto per la prima volta il teatro di Carmelo Bene.
Ricordo delle rose di un rosso abbacinante tra il palco e la platea che mi facevano tremare i polsi, delle bare nere che avevano cassetti da tutte le parti, una esagerata camicia bianca con grandi maniche piene di sbuffi, i seni nudi di alcune donne bianchissime, in fondo alla scena un nero intangibile, degli occhi spaventosamente grandi e , soprattutto, ricordo una voce gutturale che veniva dall’interno più nascosto della gola e che da lì non si spostava se non per l’effetto di continue ondate promanate da un’imperiosa amplificazione. Era una voce che incessantemente mi veniva contro e cresceva, ingigantiva in me fino al colmo della sopportazione. Il senso delle parole pronunciate era allontanato e rimaneva precluso.
La prima impressione che ebbi era che senza dubbio quello era il lavoro di un folle e che tutto ciò mi faceva paura. È stata una delle ultime volte che ho provato questo sentimento in teatro. Ma la cosa più strana di tutte era, per me, il pubblico. Il silenzio che regnava era la riprova di una tacita e sgomenta accettazione.
Cosa stava succedendo ai miei concittadini? Ma cosa mi stava succedendo, in realtà?
Eravamo divisi.
Non c’era più un oggetto comune che tutti erano in grado di percepire allo stesso modo, come capitava sempre andando a teatro. Era evidente che lì qualcosa si era rotto.
Lo avevo capito perfino io, pessimo studente. Dov’era finito l’ordine narrativo? Il problema era proprio questo, in effetti: cosa sto vedendo? Dove sono? Che senso ha per me ascoltare questa roba? Perché un teatro alienato, dal quale dovrei fuggire, è in grado di commuovermi?
Ogni anno ritornavo a vedere ciò che in realtà mi riguardava; e fu in quegli anni che compresi un vago senso di potenza belligerante intorno alle cose dell’arte.
Carmelo Bene era la verifica dell’esistenza della possibilità, fattuale, di lasciare un segno, di segnare la realtà alla quale siamo stati consegnati prima dell’insorgere di ogni coscienza.
Ero troppo piccolo per i moti e le dure contestazioni studentesche degli anni settanta che da Bologna si riflettevano anche nei centri più piccoli, ma compresi che quell’uomo non scherzava affatto circa l’idea della comunità umana. Lì c’era una vera avventura, e l’idea del politico era scolpita in ogni gesto e in ogni suono udito. L’ apoditticità delle cose che accadevano nel teatro di Carmelo Bene e l’icasticità delle sue inappellabili figure impressionava anche chi tecnicamente si occupava di politica. Come si permetteva, costui, di trasformare la dura necessità del confronto sociale in un fatto solipsistico ed estetico? Com’era possibile che l’estetica tautologica di Carmelo Bene si tramutasse in qualcosa di indicibilmente etico?
La vera funzione politica del teatro di Carmelo era quella, presumo, di dividere la città e di mettere a repentaglio il luogo comune che tiene insieme la comunità umana: il linguaggio.
La sua era una politica di tipo paradossale svolta fino in fondo; fino, cioè, alla sua conseguente funzione a-politica. Disconosceva le regole della città per indicare il luogo della solitudine dell’eroe: il campo del linguaggio. Era qui che ci riuniva tutti insieme. Il suo teatro aveva ereditato la potenza del tragico. E questo, si sa, è duro da accettare, perché oggi non lo si ritiene mai leale. Disconosce le leggi e colpisce sotto la cintura dell’individualità.
Questo avveniva nel bel teatro ottocentesco della mia città della provincia romagnola, Cesena, dove Carmelo Bene, per qualche strano motivo, scelse di debuttare, per un certo numero di stagioni con i suoi spettacoli. Questa singolare coincidenza ha significato per me, allora adolescente, il più serio e umoristico degli imprinting nel campo della sapienza teatrale.
La macchina attoriale “Carmelo Bene” mi sarebbe apparsa, negli anni a venire, prossima a uno stato di perfezione estatica, tale da essere strumento degno di questa fuga.
Perciò avvertivo la sua voce come aureola, come ulteriorità. Era una voce che si diramava per cerchi concentrici, come càpita guardando il sasso sparire sott’acqua, così come Carmelo Bene si è ingorgato al teatro e alla realtà.
Egli era, ed è rimasto, completamente avulso. Egli è stato una meteora umana dell’arte. Non ha avuto maestri, non ha lasciato allievi.
Egli odiava tutto e odiava di un odio secco, privo di passione, il suo stesso pubblico. È perché mi odiava in quanto pubblico che io, come molti altri, lo amavo e mi sentivo saldato alla sua voce. Il suo odio era l’odio di un santo; non lo dico per trovare il paradosso. Bisogna amare moltissimo per arrivare a proteggere l’amore con una corazza d’odio. E così mi appare l’odio di Carmelo: un carapace durissimo che avvolge un nucleo di fragilità ineffabile. Fragilità umana.
Ma intanto, per noi, lo spettacolo è divenuto pervasivo, virulento e ha invaso anche gli ultimi alveoli: l’intimità della persona. Carmelo Bene è stato, a suo modo, quel veleno capace di divenire antidoto.
L’unico raggio di bellezza della cultura teatrale italiana si è spento.
Fare teatro qui aveva un senso anche perché lui era vivo da qualche parte, in qualche forma."
Altoparlanti, per Carmelo Bene.

dalla rivista "Lo straniero"

Thursday, August 23, 2007

Un grande cinema

Tuesday, August 07, 2007

Due film spagnoli di Victor Erice per i miei amici sardo-spagnoli


Sunday, August 05, 2007

Martin Kippenberger