Monday, July 30, 2007

un po' di poesia in questi cazzo di blog di merda!


avremmo potuto
sperare
in seguito
una nuova rinascenza
rinascenza:
io avrei imparato a succhiare i tuoi piedi
tu avresti insegnato a non dare ripetizioni
insieme avremmo potuto sperare
in seguito.


se avessimo preso del tempo
e poi
ecco che
ecco che non so
che fare


ed ecco
allora
una distanza
cautelativa
tra le regole
abbiamo fatto
i più bei giochi
ti ricordi?


niente di più
che un uomo
e una donna
in fila alla cassa n°5


e di li a poco
ciò che tutto era
sarebbe stato
fisso
immobile
in una qualsiasi immagine
frase o
festa della riconciliazione.


siamo diventati
così lontani così
da perdere inutilmente
il tempo
senza guardare
l'uno
il resto della'altra

da lebo a cluricaun

Sunday, July 29, 2007

Allo ZKM di Karlsrue

Saturday, July 07, 2007

Jean Eustache



LA MAMAN ET LA PUTAIN

Regia, soggetto, sceneggiatura, dialoghi: Jean Eustache. Fotografia: Pierre Lhomme. Montaggio: Jean Eustache, Denise de Casabianca. Musica: Zarah Leander (Ich Weib, es wird Einmal ein wunder gescheh'n), Damia (Un souvenir), Offenbach (La Belle Hélène), Deep Purple (Concerto for group and orchestra), Marlene Dietrich (Falling in Love Again), Fréhel (La chanson des Fortifs), Mozart (Requiem), Edith Piaf (Les amants de Paris). Suono: Jean-Pierre Ruh, Paul Lainé. Costumi: Catherine. Interpreti: Jean-Pierre Léaud (Alexandre), Bernadette Lafont (Marie), Françoise Lebrun (Véronika), Isabelle Weingarten (Gilberte), Jacques Renard (l'amico di Alexandre), Jean- Noël Picq (l'appassionato di Offenbach), Jean Douchet (l'uomo del Flore), Jean Eustache (l'uomo con gli occhiali neri nel negozio di alimentari), Jessa Darrieux, Marinka Matuszewski, Geneviève Mnich, Berthe Granval. Produzione: Pierre Cottrell, Elite Films. Ciné Qua Non, Les Films du Losange, Simar Films, V. M. Productions. Distribuzione: Lab 80 film. Durata: 220'. Origine: Francia, 1973.

Il soggetto
Perché raccontare un film? Forse per togliere di mezzo tutto ciò che non conta. O conta poco. Tutto quello che sarebbe potuto essere romanzo o qualche altra cosa. Tutto ciò che non è ancora il film. Bene. Diciamo allora, anzitutto, che lei ha un faccino pallido, come se avesse passato le notti in un film di Bresson. Lei si chiama Gilberte e - come una certa Gilberte così cara a Proust - ha appena lasciato l'eroe che la ama ancora e che la supplica di restare. Invano. Lui è Alexandre ed è Jean-Pierre Léaud. Non ha un lavoro. E ne va piuttosto fiero. Soprattutto la mattina presto quando incrocia gente che non si sente troppo bene tra il letto e il lavoro. È quella l'ora in cui Alexandre torna a casa - o meglio torna da Marie (Bernadette Lafont), perché lui dorme da Marie, con Marie. Ma ci dorme poco perché lei di giorno lavora. Ha una piccola boutique dove vende vestiti. Alexandre ama molto Parigi, solo di notte però. Di giorno preferisce passare il tempo sulle terrazze dei caffè o discutere col suo amico Charles.
Un giorno Alexandre incontra una ragazza, Véronika (Françoise Lebrun). La rivede, sempre più spesso. Alexandre è un ragazzo volubile. Véronika lo sta ad ascoltare. È infermiera. Senza un soldo, come Alexandre. Dorme addirittura in ospedale per non pagarsi una stanza. Di gente, lei ne conosce un sacco, all'ospedale o nei bar aperti di notte. Tutti quanti pronti a fare l'amore. D'altra parte, a lei piace questa cosa, di fare l'amore. Un tipo come Alexandre che non ha voglia di saltarle subito addosso, che è gentile e che ama i vecchi dischi, lei proprio non l'ha mai visto. Un giorno, Alexandre invita Véronika da Marie. Proprio per ascoltare un vecchio disco graffiato. Marlene Dietrich o una sua imitatrice, non so più. Marie trova che Véronika non è un granché.
Da lì in poi, impossibile raccontare il film. Che senso ha il dire che un giorno, mentre Marie è andata a comprare vestiti a Londra, Véronika fa l'amore con Alexandre? Come spiegare che Marie, al suo ritorno, non fa nessuna scenata? E che di lì a poco si ritrovano tutti e tre insieme nel suo letto. E che la macchina da presa giustamente, non ne fa una storia e neppure un dramma. La tenerezza, il piacere, l'angoscia, la follia, la libertà sessuale, la sofferenza al limite del sopportabile. C'è tutto questo nel film.
Una notte, Marie tenta di suicidarsi davanti ad Alexandre e a Véronika. Un'altra volta, Véronika e Marie si uniscono per fare un processo ad Alexandre. Quel che è certo è che, in fondo a questo inferno, Véronika ama Alexandre. Di un amore terribile e puro. Questa piccola infermiera vuole un bambino. Si ritroverà incinta. Alexandre si accorgerà di rivivere la stessa situazione di un tempo con Gilberte. Perderà Véronika come ha perso Gilberte?
(Jean Collet, "L'Avant-Scène du Cinéma", n. 142, décembre 1973)

L'autore
Jean Eustache nasce a Pessac, nel Sud-Ovest della Francia, nel 1938. Si suicida il 5 novembre 1981, a Parigi. Giunto a Parigi nel 1958, vive gli anni della passione per il cinema (quattro film al giorno alla Cinémathèque della rue d'Ulm) e dei dibattiti sulle riviste, frequenta la redazione dei "Cahiers du cinèma", conosce e diventa amico dei protagonisti della critica e della nascente nouvelle vague, gira il suo primo film poco dopo i primi lungometraggi di Truffaut, Chabrol, Rohmer. Nel 1962, segue le riprese del primo "racconto morale" di Eric Rohmer, La boulangère de Monceau. L'anno dopo, gira il suo primo film, Les mauvaises fréquentations. Eustache ha già scelto i suoi "cinéastes de chevet": Renoir, Lang, Dreyer, Bresson, Guitry, Mizoguchi. L'intendente Sanshô è il film che lo spinge a diventare regista. Fa il montatore per il lavoro, in tre parti, Jean Renoir, le Patron di Jacques Rivette, per la serie televisiva Cinéastes de notre temps. Si dice che, nel 1965, Jean-Luc Godard, mentre girava Masculin-féminin, abbia dato a Eustache alcune bobine di pellicola permettendogli di girare così il suo secondo lavoro, Le Père Noël a les yeux bleus, con Jean-Pierre Léaud. Vengono quindi La rosière de Pessac (1968), Le cochon, girato a quattro mani con Jean-Michel Barjol (1970), e Numéro zéro (1971) che resta inedito fino al 1980, quando viene rimontato e presentato in televisione con il titolo Odette Robert. Nel 1973 gira La maman et la putain, che viene presentato al Festival di Cannes e vince il premio speciale della giuria. Nel 1975, gira Mes petites amoureuses (il titolo viene da un verso di Rimbaud), con Nestor Almendros direttore della fotografia. Il film è un insuccesso commerciale. Eustache incontra sempre maggiori difficoltà a trovare dei finanziamenti. Nel 1977, gira Une sale histoire, un lavoro in due parti di una ventina di minuti ciascuna, una parte di finzione e un'altra di tono documentaristico. Nel 1979, gira il rifacimento di La rosière de Pessac e, per l'INA, Le jardin des délices de Jérôme Bosch. Dell'anno successivo, sono i brevi Les photos d'Alix e Offre d'emploi. Jean Eustache ha recitato in Week-end di Jean-Luc Godard e in L'amico americano di Wim Wenders.

Filmografia
1963 Les mauvaises fréquentations
1966 Le père Noël a les yeux bleus
1968 La rosière de Pessac (I)
1970 Le cochon
1971 Numéro zéro
1973 La maman et la putain
1974 Mes petites amoureuses
1977 Une sale histoire
1979 La rosière de Pessac (II)
Le jardin des délices de Jerôme Bosch
1980 Les photos d'Alix
Offre d'emploi

Dichiarazioni

La maman et la putain è il racconto di alcuni fatti all'apparenza anodini. Potrebbe essere il racconto di fatti totalmente differenti in luoghi del tutto diversi. Quello che succede nel film e i luoghi dove si svolge l'azione non hanno nessuna importanza. Un riassunto della storia non potrebbe dare nessuna idea delle ambizioni e delle potenzialità del film. Eppure La maman et la putain non può essere altro da ciò che è. Non può svolgersi che là dove si svolge. Mi spiego: la sola ragione per cui nel film succede quel che succede e là dove succede è che io l'ho immaginato così.
Non ne farò un riassunto anche per un'altra ragione: il riassunto mette in risalto le azioni definitive a scapito delle azioni accessorie o senza risultato. Ora, il mio soggetto è il modo con cui le azioni importanti si inseriscono in una continuità di azioni anodine. È la descrizione del corso normale degli avvenimenti senza la scorciatoia schematica della drammatizzazione cinematografica.
Jean Eustache (1973)


- Perché questo titolo?
- Per provocazione. Nel film non si possono distinguere la mamma e la puttana. Il titolo mi si è imposto a due terzi della sceneggiatura. All'inizio volevo intitolare il film Du pain et des Rolls. È un film sulla condizione della donna, sull'ossessione della maternità e della prostituzione, i due poli della condizione femminile. La maman et la putain è il titolo più banale del mondo, no?


- La parola provocazione ritorna spesso nelle sue parole...
- Significa che io provoco con la pura e semplice intenzione di provocare.

- Qual è la sua posizione nei rapporti con gli altri registi?
- Il regista più grande resta Jean Renoir. Oltre a lui, non ammiro nessuno. Ho avuto qualche passione nel nuovo cinema degli anni 1958-59. Però, il solo regista ad essere rimasto "intatto" è Jacques Rozier. Mi piace moltissimo il suo ultimo film Du côté d'Orouet, un film di due ore e mezzo. Non si può più girare un film di durata inferiore. È il problema di stare dentro al tempo. Uno dei pochi film che non mi disgusta è Arancia meccanica, lungo due ore e venti, ma non fatemi dire che amo questo film.

- Ci sono delle canzoni nella Maman et la putain...
-Non sono sfondi sonori. Ci sono delle persone che tacciono e ascoltano delle canzoni. Per tre minuti e sette secondi, Bernadette Lafont, che sta su un letto, ascolta Les amants de Paris di Edith Piaf. Il disco è graffiato. Si ascoltano anche Fréhel con La chanson des Fortifs e Damia con Un souvenir. Il cinema si fa da solo quando la macchina da presa gira. Inutile muoverla.


- La scrittura della sceneggiatura...
- Diciamo che procedo più per proposte che per affermazioni. Credo all'apporto dei tecnici e degli attori come elementi creatori. Non chiedo agli attori di improvvisare ma di contribuire con qualcosa a quello che io intendo fare. Proibisco anche il cambiamento di una virgola nella sceneggiatura. Ma non è che la consideri del marmo, intoccabile. La sceneggiatura, lo ripeto, è una proposta.


- Le sta bene la definizione di réalisateur, di regista?
- Non so cosa significa. Chi "realizza"? La parola "direzione" mi sembra più appropriata.
- Lei cura particolarmente la scrittura. Perché non ha scelto di essere romanziere?
- Faccio cinema perché sono incapace di essere romanziere.

- Ambizioso?
- No, l'ho provato da dieci anni in qua. Non voglio fare carriera nel cinema. E, mi creda, non sono modesto. Credo molto ai film che faccio, soprattutto a quest'ultimo.

- A chi vanno le sue preferenze letterarie?
- A Proust e a Céline. Ridicolo, no? Dà l'impressione che io mangi a tutti i tavoli.

- Regista maledetto...
- Rifiuto questa definizione. Non vuol dire niente. Sono stato, come dire, riconosciuto dalla stampa fin dal primo film. Poi, per colpa della distribuzione, i miei film non sono arrivati al pubblico. È una faccenda diversa. E in fin dei conti, fino alla Maman et la putain, ho girato i miei film a mie spese.


- Cosa fa quando non gira?
- Niente. Ho imparato a non fare niente. L'impegno del mio personaggio principale, d'altra parte, è un po' questo. Sa, si è molto occupati quando non si fa niente.
(intervista di Gilles Durieux, "L'Avant-Scène du Cinéma", n. 142, décembre 1973)

- Le indicazioni tecniche sono precise, nella sceneggiatura?
- Non c'è mai una vera indicazione di azione o di plan, di inquadratura. Per La maman et la putain, quando sono arrivato sul set, non sapevo dove mettere la macchina da presa e gli attori. E poi, in pochi istanti, prima di girare l'inquadratura, dicevo: "La macchina va qui e gli attori là". Ma non avevo in mente quello che avrei fatto nell'inquadratura successiva. Facendo qualche prova, vedevo se le cose funzionavano e dove bisognava finire l'inquadratura. Il problema di dove mettere la macchina si riproponeva ad ogni inquadratura. Così ho fatto La maman et la putain in un tempo minimo: quattro settimane di riprese per un film di tre ore e quaranta, che vuol dire più o meno dai dodici ai quindici minuti utili ogni giorno. Comunque non lo rifarei più. Adesso voglio un minimo di agio.


- Nella sceneggiatura che cosa era importante? Cosa c'è stato di maggiormente vitale nella scrittura di questa sceneggiatura?
- Ho scritto questa sceneggiatura perché amavo una donna che mi aveva lasciato. Volevo che recitasse in un film scritto da me. Non avevo mai avuto l'occasione, negli anni passati insieme, di farla recitare nei miei film, perché allora non facevo film di finzione e non avevo neppure l'idea che lei potesse recitare. Ho scritto questo film per lei e per Léaud. Se avessero rifiutato di recitare, non l'avrei scritto. Pensavo di scrivere il film in otto giorni; dopo otto giorni, avevo scritto soltanto la prima sequenza e non sapevo ancora come sarebbe stata la seconda. Era la prima volta che non mi preoccupavo per il découpage: mettere la macchina lì piuttosto che là, sapere dove avrei cambiato inquadratura. Prima facevo un vero découpage. In questo caso il problema non si è posto. Adesso non ricordo se avessi pensato di mettere tutto questo sulla carta più tardi, ma non mi è proprio venuto in mente di farlo. Nei primi giorni di ripresa, arrivavo al mattino con una inquietudine incredibile, non dormivo, riflettevo tutta la notte - come avrei girato questo... - e non riuscivo a trovare la riposta. Ugualmente, non c'erano molte scenografie, ma io comunque non le conoscevo. Bisognava girare molto velocemente, così andava la faccenda. Però, conoscevo molto bene la sceneggiatura, quasi a memoria, e tutte le mattine dicevo a Pierre Lhomme: "Bene, guarda quel che dobbiamo fare: come pensi che lo si possa fare?" Lui conosceva la sceneggiatura meno bene di me, è chiaro, e aveva bisogno di immergersi per qualche momento nella lettura per risolvere qualche problema. Io conoscevo troppo bene la sceneggiatura per risolverli chiaramente, i problemi. Così ero praticamente al punto di partenza ad ogni nuova sequenza. Credo di aver girato nove inquadrature su dieci senza sapere dove l'inquadratura sarebbe finita e dove l'avrei montata su quella successiva. I primi giorni, questo mi ha reso incredibilmente inquieto, eppure le riprese andavano avanti, non si perdeva tempo. Non abbiamo perso un'ora, mai. Dopo qualche giorno mi sono preoccupato di meno, non sapevo cosa avrei fatto l'indomani ma me la cavavo sempre.
Si potrebbe anche dire che la trasformazione della sceneggiatura in film finisce per ccompiersi necessariamente, perché nella sceneggiatura, anche quando sia molto precisa, tutto è ancora approssimativo. Per esempio, nella Maman et la putain, la sequenza 23 comincia quando hanno finito di fare l'amore. Questo in sceneggiatura è scritto. Nel film è messo in scena: un letto, un giradischi, una bottiglia di whisky, una coca cola, e Léaud che si versa da bere, mezzo allungato.


- Ti ricordi come questo è avvenuto, esattamente?
- Quel giorno, il lavoro di ripresa era piuttosto felice, abbiamo girato quattordici minuti di questa sequenza e li abbiamo girati con un'atmosfera felice. Non era sempre così, perché c'era una grande tensione. Gli attori dovevano fare un tale sforzo: tutti erano inquieti dato che io non sapevo in realtà cosa fare. Leggevo quello che avevo scritto cercando di filmare quello che mi ero annotato frase per frase. L'ultima frase della squenza precedente era: "Si ha l'impressione che faranno l'amore". Come finire allora questa inquadratura? La macchina era dietro a loro, al fianco del letto ma dietro, al posto della stoffa, e avevo fatto togliere la camicetta a Bernadette. Era a letto e dormiva con la camicia, Léaud entrava e lei andava in bagno e si toglieva la camicia. Speravo che questo bastasse per filmare quello che stava scritto. Poi, con un'immagine inquadrata sopra la testa del letto, lei arriva, serve da bere e io mi sono detto: si penserà quel che si vuole.


- Ma si trattava di seguire alla lettera quello che aveva scritto?
- Per quel che si doveva dire sì, perché non avevo voglia di cambiare i dialoghi. Tanto più che l'idea era di interrogare totalmente la parola attraverso tutto ciò che essa ha di non drammatico. Nella Maman et la putain, la parola non serve l'intrigo, non è al servizio di nulla.

- È essa stessa l'intrigo.
- Sì, ma un intrigo molto vago. Non è un intrigo avvincente. Può anche darsi che questa stessa frase non avesse nessun interesse... In effetti, ci sono mille modi per far capire che due persone hanno appena fatto l'amore. Ho scelto quella maniera, e non era scritta in sceneggiatura, il che vuol dire che la sceneggiatura è incompleta, perché non era un découpage, era soltanto la storia.
(da un'intervista di Sylvie Blum e Jérôme Prieur, "Scénario", septembre 1983)

- Se nella Maman et la putain abbandonate ogni riferimento cinematografico, vi si possono invece trovare molte influenze letterarie.
- C'è un riferimento all'insieme della letteratura ma anche ad autori precisi come il Bataille di Le bleu du ciel (L'azzurro del cielo). Così, ho avuto l'impressione di scrivere una pagina di Bataille mentre scrivevo la scena della boutique nella quale Léaud, con un gioco di specchi, vede svestirsi e poi vestirsi una splendida donna sconosciuta. In altri momenti, quando l'allusione si faceva troppo evidente, ho tagliato certi passaggi perché erano troppo significativi e scoprivano le carte in modo un po' troppo grossolano.


- Questi riferimenti e l'abbondanza di dialoghi sono alla base delle critiche al film, proprio per questo suo aspetto letterario.
- Non capisco queste critiche. Chi fa cinema letterario? Rohmer o Marguerite Duras? Non si può etichettare un film come letterario perché la parola vi gioca un ruolo importante. Anche la voce e il volto sono cinema.


- Lei ci fa scoprire i suoi personaggi via via che loro stessi si scoprono.
- Sì, e ci tengo molto. Detesto il cinema in cui il regista continua a strizzare l'occhio allo spettatore. La nouvelle vague ha lottato contro questi procedimenti. Inizialmente, il pubblico deve saperne un po' meno rispetto ai personaggi e deve seguirne le orme. Il racconto deve mantenere un certo distacco. Rifiuto l'illusione della partecipazione, i grandi ritratti tracciati nei primi dieci minuti del film. Qui, la conoscenza dei personaggi è contemporaneamente la conoscenza del film. Questo metodo richiede l'abbandono dei pregiudizi e un'apertura a nuovi schemi. Il film utilizza un'estetica in accordo al carattere dei personaggi. Le aperture a diaframma, che vengono dal cinema muto, rinviano a un momento dell'evoluzione drammatica dei personaggi. Al tempo stesso, la fine è montata circolarmente. La stessa scena ricomincia, quasi identica, e invita a pensare che continui. La mia interpretazione è quella del movimento, il punto finale non è determinato. Solo una scena in cui si vomita mette fine al film. Quest'ultima l'ho trovata in fretta, molto prima di concepire il film nella sua integralità. Per rifiutare la sempiterna sequenza finale, l'ho fatta molto corta in opposizione a quella precedente, più lunga, che si presenta come la conclusione del film. Questa costruzione non è venuta da nessuna analisi ma da una percezione di giustezza. La sceneggiatura ha richiesto poco tempo: dieci, quindici minuti, tutte le mattine, per un mese. Scrivevo rapidamente, sotto ispirazione; quando l'ispirazione non c'era, mi fermavo anche quattro o cinque giorni.
(dall'intervista di Stéphane Lévy-Klein, "Positif", n. 157, mars 1974)

Se c'è una cosa che ha contato veramente per me, è certamente la libertà della nouvelle vague, la libertà che essa ha dato al regista. Ma l'ammirazione che ho per Rohmer, Godard, Truffaut, Rivette e Chabrol evidentemente, l'ammirazione che ho per il loro lavoro non si traduce in un'influenza diretta; piuttosto è il modello che offrono, di persone che hanno costituito dei sistemi per imporre la loro opera, la loro personalità e il loro stile, e il fatto che la sola verità che conta per i registi della nouvelle vague è di essere semplicemente se stessi e di imporre la propria singolarità, poiché, sebbene non ci sia niente di più diverso nel cinema che il cinema di Godard rispetto a quello di Rohmer, o quello di Rivette rispetto a quello di Truffaut - non c'è alcuna omogeneità stilistica ed è molto difficile dire che la nouvelle vague è un movimento -, quello che conta è la loro libertà e il modo in cui io posso usare la loro libertà per fare eventualmente l'opposto di quello che loro hanno fatto. Invece, per me, se c'è un'influenza schiacciante che si avvicina in maniera diretta alla nouvelle vague - e attraverso cui si pone di nuovo il problema di Jean-Pierre Léaud - questa è data da Jean Eustache, poichè in lui c'è qualcosa della nouvelle vague e qualcosa che la richiama. Se ci sono cose che mi toccano e contano per me realmente e intimamente come regista, queste le trovo in Garrel e Eustache, che sono persone che vengono immediatamente dopo la nouvelle vague, che ne sono in qualche modo slegate, e in quella specie di paradosso vivente che è La maman et la putain, che è il capolavoro della nouvelle vague francese, ma non l'hanno fatto i cineasti della nouvelle vague, bensì Eustache che è venuto dopo.
(Olivier Assays, dall'intervista per il catalogo di Bergamo Film Meeting, 1996)


LA MAMAN ET LA PUTAIN

Regia, soggetto, sceneggiatura, dialoghi: Jean Eustache. Fotografia: Pierre Lhomme. Montaggio: Jean Eustache, Denise de Casabianca. Musica: Zarah Leander (Ich Weib, es wird Einmal ein wunder gescheh'n), Damia (Un souvenir), Offenbach (La Belle Hélène), Deep Purple (Concerto for group and orchestra), Marlene Dietrich (Falling in Love Again), Fréhel (La chanson des Fortifs), Mozart (Requiem), Edith Piaf (Les amants de Paris). Suono: Jean-Pierre Ruh, Paul Lainé. Costumi: Catherine. Interpreti: Jean-Pierre Léaud (Alexandre), Bernadette Lafont (Marie), Françoise Lebrun (Véronika), Isabelle Weingarten (Gilberte), Jacques Renard (l'amico di Alexandre), Jean- Noël Picq (l'appassionato di Offenbach), Jean Douchet (l'uomo del Flore), Jean Eustache (l'uomo con gli occhiali neri nel negozio di alimentari), Jessa Darrieux, Marinka Matuszewski, Geneviève Mnich, Berthe Granval. Produzione: Pierre Cottrell, Elite Films. Ciné Qua Non, Les Films du Losange, Simar Films, V. M. Productions. Distribuzione: Lab 80 film. Durata: 220'. Origine: Francia, 1973.

Il soggetto
Perché raccontare un film? Forse per togliere di mezzo tutto ciò che non conta. O conta poco. Tutto quello che sarebbe potuto essere romanzo o qualche altra cosa. Tutto ciò che non è ancora il film. Bene. Diciamo allora, anzitutto, che lei ha un faccino pallido, come se avesse passato le notti in un film di Bresson. Lei si chiama Gilberte e - come una certa Gilberte così cara a Proust - ha appena lasciato l'eroe che la ama ancora e che la supplica di restare. Invano. Lui è Alexandre ed è Jean-Pierre Léaud. Non ha un lavoro. E ne va piuttosto fiero. Soprattutto la mattina presto quando incrocia gente che non si sente troppo bene tra il letto e il lavoro. È quella l'ora in cui Alexandre torna a casa - o meglio torna da Marie (Bernadette Lafont), perché lui dorme da Marie, con Marie. Ma ci dorme poco perché lei di giorno lavora. Ha una piccola boutique dove vende vestiti. Alexandre ama molto Parigi, solo di notte però. Di giorno preferisce passare il tempo sulle terrazze dei caffè o discutere col suo amico Charles.
Un giorno Alexandre incontra una ragazza, Véronika (Françoise Lebrun). La rivede, sempre più spesso. Alexandre è un ragazzo volubile. Véronika lo sta ad ascoltare. È infermiera. Senza un soldo, come Alexandre. Dorme addirittura in ospedale per non pagarsi una stanza. Di gente, lei ne conosce un sacco, all'ospedale o nei bar aperti di notte. Tutti quanti pronti a fare l'amore. D'altra parte, a lei piace questa cosa, di fare l'amore. Un tipo come Alexandre che non ha voglia di saltarle subito addosso, che è gentile e che ama i vecchi dischi, lei proprio non l'ha mai visto. Un giorno, Alexandre invita Véronika da Marie. Proprio per ascoltare un vecchio disco graffiato. Marlene Dietrich o una sua imitatrice, non so più. Marie trova che Véronika non è un granché.
Da lì in poi, impossibile raccontare il film. Che senso ha il dire che un giorno, mentre Marie è andata a comprare vestiti a Londra, Véronika fa l'amore con Alexandre? Come spiegare che Marie, al suo ritorno, non fa nessuna scenata? E che di lì a poco si ritrovano tutti e tre insieme nel suo letto. E che la macchina da presa giustamente, non ne fa una storia e neppure un dramma. La tenerezza, il piacere, l'angoscia, la follia, la libertà sessuale, la sofferenza al limite del sopportabile. C'è tutto questo nel film.
Una notte, Marie tenta di suicidarsi davanti ad Alexandre e a Véronika. Un'altra volta, Véronika e Marie si uniscono per fare un processo ad Alexandre. Quel che è certo è che, in fondo a questo inferno, Véronika ama Alexandre. Di un amore terribile e puro. Questa piccola infermiera vuole un bambino. Si ritroverà incinta. Alexandre si accorgerà di rivivere la stessa situazione di un tempo con Gilberte. Perderà Véronika come ha perso Gilberte?
(Jean Collet, "L'Avant-Scène du Cinéma", n. 142, décembre 1973)

L'autore
Jean Eustache nasce a Pessac, nel Sud-Ovest della Francia, nel 1938. Si suicida il 5 novembre 1981, a Parigi. Giunto a Parigi nel 1958, vive gli anni della passione per il cinema (quattro film al giorno alla Cinémathèque della rue d'Ulm) e dei dibattiti sulle riviste, frequenta la redazione dei "Cahiers du cinèma", conosce e diventa amico dei protagonisti della critica e della nascente nouvelle vague, gira il suo primo film poco dopo i primi lungometraggi di Truffaut, Chabrol, Rohmer. Nel 1962, segue le riprese del primo "racconto morale" di Eric Rohmer, La boulangère de Monceau. L'anno dopo, gira il suo primo film, Les mauvaises fréquentations. Eustache ha già scelto i suoi "cinéastes de chevet": Renoir, Lang, Dreyer, Bresson, Guitry, Mizoguchi. L'intendente Sanshô è il film che lo spinge a diventare regista. Fa il montatore per il lavoro, in tre parti, Jean Renoir, le Patron di Jacques Rivette, per la serie televisiva Cinéastes de notre temps. Si dice che, nel 1965, Jean-Luc Godard, mentre girava Masculin-féminin, abbia dato a Eustache alcune bobine di pellicola permettendogli di girare così il suo secondo lavoro, Le Père Noël a les yeux bleus, con Jean-Pierre Léaud. Vengono quindi La rosière de Pessac (1968), Le cochon, girato a quattro mani con Jean-Michel Barjol (1970), e Numéro zéro (1971) che resta inedito fino al 1980, quando viene rimontato e presentato in televisione con il titolo Odette Robert. Nel 1973 gira La maman et la putain, che viene presentato al Festival di Cannes e vince il premio speciale della giuria. Nel 1975, gira Mes petites amoureuses (il titolo viene da un verso di Rimbaud), con Nestor Almendros direttore della fotografia. Il film è un insuccesso commerciale. Eustache incontra sempre maggiori difficoltà a trovare dei finanziamenti. Nel 1977, gira Une sale histoire, un lavoro in due parti di una ventina di minuti ciascuna, una parte di finzione e un'altra di tono documentaristico. Nel 1979, gira il rifacimento di La rosière de Pessac e, per l'INA, Le jardin des délices de Jérôme Bosch. Dell'anno successivo, sono i brevi Les photos d'Alix e Offre d'emploi. Jean Eustache ha recitato in Week-end di Jean-Luc Godard e in L'amico americano di Wim Wenders.

Filmografia
1963 Les mauvaises fréquentations
1966 Le père Noël a les yeux bleus
1968 La rosière de Pessac (I)
1970 Le cochon
1971 Numéro zéro
1973 La maman et la putain
1974 Mes petites amoureuses
1977 Une sale histoire
1979 La rosière de Pessac (II)
Le jardin des délices de Jerôme Bosch
1980 Les photos d'Alix
Offre d'emploi

Dichiarazioni

La maman et la putain è il racconto di alcuni fatti all'apparenza anodini. Potrebbe essere il racconto di fatti totalmente differenti in luoghi del tutto diversi. Quello che succede nel film e i luoghi dove si svolge l'azione non hanno nessuna importanza. Un riassunto della storia non potrebbe dare nessuna idea delle ambizioni e delle potenzialità del film. Eppure La maman et la putain non può essere altro da ciò che è. Non può svolgersi che là dove si svolge. Mi spiego: la sola ragione per cui nel film succede quel che succede e là dove succede è che io l'ho immaginato così.
Non ne farò un riassunto anche per un'altra ragione: il riassunto mette in risalto le azioni definitive a scapito delle azioni accessorie o senza risultato. Ora, il mio soggetto è il modo con cui le azioni importanti si inseriscono in una continuità di azioni anodine. È la descrizione del corso normale degli avvenimenti senza la scorciatoia schematica della drammatizzazione cinematografica.
Jean Eustache (1973)


- Perché questo titolo?
- Per provocazione. Nel film non si possono distinguere la mamma e la puttana. Il titolo mi si è imposto a due terzi della sceneggiatura. All'inizio volevo intitolare il film Du pain et des Rolls. È un film sulla condizione della donna, sull'ossessione della maternità e della prostituzione, i due poli della condizione femminile. La maman et la putain è il titolo più banale del mondo, no?


- La parola provocazione ritorna spesso nelle sue parole...
- Significa che io provoco con la pura e semplice intenzione di provocare.

- Qual è la sua posizione nei rapporti con gli altri registi?
- Il regista più grande resta Jean Renoir. Oltre a lui, non ammiro nessuno. Ho avuto qualche passione nel nuovo cinema degli anni 1958-59. Però, il solo regista ad essere rimasto "intatto" è Jacques Rozier. Mi piace moltissimo il suo ultimo film Du côté d'Orouet, un film di due ore e mezzo. Non si può più girare un film di durata inferiore. È il problema di stare dentro al tempo. Uno dei pochi film che non mi disgusta è Arancia meccanica, lungo due ore e venti, ma non fatemi dire che amo questo film.

- Ci sono delle canzoni nella Maman et la putain...
-Non sono sfondi sonori. Ci sono delle persone che tacciono e ascoltano delle canzoni. Per tre minuti e sette secondi, Bernadette Lafont, che sta su un letto, ascolta Les amants de Paris di Edith Piaf. Il disco è graffiato. Si ascoltano anche Fréhel con La chanson des Fortifs e Damia con Un souvenir. Il cinema si fa da solo quando la macchina da presa gira. Inutile muoverla.


- La scrittura della sceneggiatura...
- Diciamo che procedo più per proposte che per affermazioni. Credo all'apporto dei tecnici e degli attori come elementi creatori. Non chiedo agli attori di improvvisare ma di contribuire con qualcosa a quello che io intendo fare. Proibisco anche il cambiamento di una virgola nella sceneggiatura. Ma non è che la consideri del marmo, intoccabile. La sceneggiatura, lo ripeto, è una proposta.


- Le sta bene la definizione di réalisateur, di regista?
- Non so cosa significa. Chi "realizza"? La parola "direzione" mi sembra più appropriata.
- Lei cura particolarmente la scrittura. Perché non ha scelto di essere romanziere?
- Faccio cinema perché sono incapace di essere romanziere.

- Ambizioso?
- No, l'ho provato da dieci anni in qua. Non voglio fare carriera nel cinema. E, mi creda, non sono modesto. Credo molto ai film che faccio, soprattutto a quest'ultimo.

- A chi vanno le sue preferenze letterarie?
- A Proust e a Céline. Ridicolo, no? Dà l'impressione che io mangi a tutti i tavoli.

- Regista maledetto...
- Rifiuto questa definizione. Non vuol dire niente. Sono stato, come dire, riconosciuto dalla stampa fin dal primo film. Poi, per colpa della distribuzione, i miei film non sono arrivati al pubblico. È una faccenda diversa. E in fin dei conti, fino alla Maman et la putain, ho girato i miei film a mie spese.


- Cosa fa quando non gira?
- Niente. Ho imparato a non fare niente. L'impegno del mio personaggio principale, d'altra parte, è un po' questo. Sa, si è molto occupati quando non si fa niente.
(intervista di Gilles Durieux, "L'Avant-Scène du Cinéma", n. 142, décembre 1973)

- Le indicazioni tecniche sono precise, nella sceneggiatura?
- Non c'è mai una vera indicazione di azione o di plan, di inquadratura. Per La maman et la putain, quando sono arrivato sul set, non sapevo dove mettere la macchina da presa e gli attori. E poi, in pochi istanti, prima di girare l'inquadratura, dicevo: "La macchina va qui e gli attori là". Ma non avevo in mente quello che avrei fatto nell'inquadratura successiva. Facendo qualche prova, vedevo se le cose funzionavano e dove bisognava finire l'inquadratura. Il problema di dove mettere la macchina si riproponeva ad ogni inquadratura. Così ho fatto La maman et la putain in un tempo minimo: quattro settimane di riprese per un film di tre ore e quaranta, che vuol dire più o meno dai dodici ai quindici minuti utili ogni giorno. Comunque non lo rifarei più. Adesso voglio un minimo di agio.


- Nella sceneggiatura che cosa era importante? Cosa c'è stato di maggiormente vitale nella scrittura di questa sceneggiatura?
- Ho scritto questa sceneggiatura perché amavo una donna che mi aveva lasciato. Volevo che recitasse in un film scritto da me. Non avevo mai avuto l'occasione, negli anni passati insieme, di farla recitare nei miei film, perché allora non facevo film di finzione e non avevo neppure l'idea che lei potesse recitare. Ho scritto questo film per lei e per Léaud. Se avessero rifiutato di recitare, non l'avrei scritto. Pensavo di scrivere il film in otto giorni; dopo otto giorni, avevo scritto soltanto la prima sequenza e non sapevo ancora come sarebbe stata la seconda. Era la prima volta che non mi preoccupavo per il découpage: mettere la macchina lì piuttosto che là, sapere dove avrei cambiato inquadratura. Prima facevo un vero découpage. In questo caso il problema non si è posto. Adesso non ricordo se avessi pensato di mettere tutto questo sulla carta più tardi, ma non mi è proprio venuto in mente di farlo. Nei primi giorni di ripresa, arrivavo al mattino con una inquietudine incredibile, non dormivo, riflettevo tutta la notte - come avrei girato questo... - e non riuscivo a trovare la riposta. Ugualmente, non c'erano molte scenografie, ma io comunque non le conoscevo. Bisognava girare molto velocemente, così andava la faccenda. Però, conoscevo molto bene la sceneggiatura, quasi a memoria, e tutte le mattine dicevo a Pierre Lhomme: "Bene, guarda quel che dobbiamo fare: come pensi che lo si possa fare?" Lui conosceva la sceneggiatura meno bene di me, è chiaro, e aveva bisogno di immergersi per qualche momento nella lettura per risolvere qualche problema. Io conoscevo troppo bene la sceneggiatura per risolverli chiaramente, i problemi. Così ero praticamente al punto di partenza ad ogni nuova sequenza. Credo di aver girato nove inquadrature su dieci senza sapere dove l'inquadratura sarebbe finita e dove l'avrei montata su quella successiva. I primi giorni, questo mi ha reso incredibilmente inquieto, eppure le riprese andavano avanti, non si perdeva tempo. Non abbiamo perso un'ora, mai. Dopo qualche giorno mi sono preoccupato di meno, non sapevo cosa avrei fatto l'indomani ma me la cavavo sempre.
Si potrebbe anche dire che la trasformazione della sceneggiatura in film finisce per ccompiersi necessariamente, perché nella sceneggiatura, anche quando sia molto precisa, tutto è ancora approssimativo. Per esempio, nella Maman et la putain, la sequenza 23 comincia quando hanno finito di fare l'amore. Questo in sceneggiatura è scritto. Nel film è messo in scena: un letto, un giradischi, una bottiglia di whisky, una coca cola, e Léaud che si versa da bere, mezzo allungato.


- Ti ricordi come questo è avvenuto, esattamente?
- Quel giorno, il lavoro di ripresa era piuttosto felice, abbiamo girato quattordici minuti di questa sequenza e li abbiamo girati con un'atmosfera felice. Non era sempre così, perché c'era una grande tensione. Gli attori dovevano fare un tale sforzo: tutti erano inquieti dato che io non sapevo in realtà cosa fare. Leggevo quello che avevo scritto cercando di filmare quello che mi ero annotato frase per frase. L'ultima frase della squenza precedente era: "Si ha l'impressione che faranno l'amore". Come finire allora questa inquadratura? La macchina era dietro a loro, al fianco del letto ma dietro, al posto della stoffa, e avevo fatto togliere la camicetta a Bernadette. Era a letto e dormiva con la camicia, Léaud entrava e lei andava in bagno e si toglieva la camicia. Speravo che questo bastasse per filmare quello che stava scritto. Poi, con un'immagine inquadrata sopra la testa del letto, lei arriva, serve da bere e io mi sono detto: si penserà quel che si vuole.


- Ma si trattava di seguire alla lettera quello che aveva scritto?
- Per quel che si doveva dire sì, perché non avevo voglia di cambiare i dialoghi. Tanto più che l'idea era di interrogare totalmente la parola attraverso tutto ciò che essa ha di non drammatico. Nella Maman et la putain, la parola non serve l'intrigo, non è al servizio di nulla.

- È essa stessa l'intrigo.
- Sì, ma un intrigo molto vago. Non è un intrigo avvincente. Può anche darsi che questa stessa frase non avesse nessun interesse... In effetti, ci sono mille modi per far capire che due persone hanno appena fatto l'amore. Ho scelto quella maniera, e non era scritta in sceneggiatura, il che vuol dire che la sceneggiatura è incompleta, perché non era un découpage, era soltanto la storia.
(da un'intervista di Sylvie Blum e Jérôme Prieur, "Scénario", septembre 1983)

- Se nella Maman et la putain abbandonate ogni riferimento cinematografico, vi si possono invece trovare molte influenze letterarie.
- C'è un riferimento all'insieme della letteratura ma anche ad autori precisi come il Bataille di Le bleu du ciel (L'azzurro del cielo). Così, ho avuto l'impressione di scrivere una pagina di Bataille mentre scrivevo la scena della boutique nella quale Léaud, con un gioco di specchi, vede svestirsi e poi vestirsi una splendida donna sconosciuta. In altri momenti, quando l'allusione si faceva troppo evidente, ho tagliato certi passaggi perché erano troppo significativi e scoprivano le carte in modo un po' troppo grossolano.


- Questi riferimenti e l'abbondanza di dialoghi sono alla base delle critiche al film, proprio per questo suo aspetto letterario.
- Non capisco queste critiche. Chi fa cinema letterario? Rohmer o Marguerite Duras? Non si può etichettare un film come letterario perché la parola vi gioca un ruolo importante. Anche la voce e il volto sono cinema.


- Lei ci fa scoprire i suoi personaggi via via che loro stessi si scoprono.
- Sì, e ci tengo molto. Detesto il cinema in cui il regista continua a strizzare l'occhio allo spettatore. La nouvelle vague ha lottato contro questi procedimenti. Inizialmente, il pubblico deve saperne un po' meno rispetto ai personaggi e deve seguirne le orme. Il racconto deve mantenere un certo distacco. Rifiuto l'illusione della partecipazione, i grandi ritratti tracciati nei primi dieci minuti del film. Qui, la conoscenza dei personaggi è contemporaneamente la conoscenza del film. Questo metodo richiede l'abbandono dei pregiudizi e un'apertura a nuovi schemi. Il film utilizza un'estetica in accordo al carattere dei personaggi. Le aperture a diaframma, che vengono dal cinema muto, rinviano a un momento dell'evoluzione drammatica dei personaggi. Al tempo stesso, la fine è montata circolarmente. La stessa scena ricomincia, quasi identica, e invita a pensare che continui. La mia interpretazione è quella del movimento, il punto finale non è determinato. Solo una scena in cui si vomita mette fine al film. Quest'ultima l'ho trovata in fretta, molto prima di concepire il film nella sua integralità. Per rifiutare la sempiterna sequenza finale, l'ho fatta molto corta in opposizione a quella precedente, più lunga, che si presenta come la conclusione del film. Questa costruzione non è venuta da nessuna analisi ma da una percezione di giustezza. La sceneggiatura ha richiesto poco tempo: dieci, quindici minuti, tutte le mattine, per un mese. Scrivevo rapidamente, sotto ispirazione; quando l'ispirazione non c'era, mi fermavo anche quattro o cinque giorni.
(dall'intervista di Stéphane Lévy-Klein, "Positif", n. 157, mars 1974)

Se c'è una cosa che ha contato veramente per me, è certamente la libertà della nouvelle vague, la libertà che essa ha dato al regista. Ma l'ammirazione che ho per Rohmer, Godard, Truffaut, Rivette e Chabrol evidentemente, l'ammirazione che ho per il loro lavoro non si traduce in un'influenza diretta; piuttosto è il modello che offrono, di persone che hanno costituito dei sistemi per imporre la loro opera, la loro personalità e il loro stile, e il fatto che la sola verità che conta per i registi della nouvelle vague è di essere semplicemente se stessi e di imporre la propria singolarità, poiché, sebbene non ci sia niente di più diverso nel cinema che il cinema di Godard rispetto a quello di Rohmer, o quello di Rivette rispetto a quello di Truffaut - non c'è alcuna omogeneità stilistica ed è molto difficile dire che la nouvelle vague è un movimento -, quello che conta è la loro libertà e il modo in cui io posso usare la loro libertà per fare eventualmente l'opposto di quello che loro hanno fatto. Invece, per me, se c'è un'influenza schiacciante che si avvicina in maniera diretta alla nouvelle vague - e attraverso cui si pone di nuovo il problema di Jean-Pierre Léaud - questa è data da Jean Eustache, poichè in lui c'è qualcosa della nouvelle vague e qualcosa che la richiama. Se ci sono cose che mi toccano e contano per me realmente e intimamente come regista, queste le trovo in Garrel e Eustache, che sono persone che vengono immediatamente dopo la nouvelle vague, che ne sono in qualche modo slegate, e in quella specie di paradosso vivente che è La maman et la putain, che è il capolavoro della nouvelle vague francese, ma non l'hanno fatto i cineasti della nouvelle vague, bensì Eustache che è venuto dopo.
(Olivier Assays, dall'intervista per il catalogo di Bergamo Film Meeting, 1996)