Sunday, March 25, 2007

Pascoli

La partenza del Boscaiolo

I
La scure prendi su, Lombardo,
da Fiumalbo e Frassinoro!
Il vento ha già spiumato il cardo,
fruga la tua barba d'oro.
Lombardo, prendi su la scure,
da Civago e da Cerù:
è tempo di passar l'alture:
tient'a su! tient'a su! tient'a su!

II
Più fondo scavano le talpe
nelle prata in cui già brina.
E tempo che tu passi l'Alpe,
chè la neve s'avvicina.
Le talpe scavano più fondo.
Vanno più alte le gru.
Fa come queste, e va pel mondo:
tient'a su! tient'a su! tient'a su!

III
Per le faggete e l'abetine,
dalle fratte e dal ruscello,
quel canto suona senza fine,
chiaro come un campanello.
Per l'abetine e le faggete
canta, ogni ora ogni dì più,
la cinciallegra, e ti ripete:
tient'a su! tient'a su! tient'a su!

IV
Di bosco è come te, la cincia:
campa su la macchia anch'essa.
Sa che, col verno che comincia,
ti finisce la rimessa.
La cincia è come te, di bosco:
sa che pane non n'hai più.
Va dove n'ha rimesso il Tosco:
tient'a su! tient'a su! tient'a su!

V
Le gemme qua e là col becco
picchia: anch'essa è taglialegna.
Nel bosco è un picchierellar secco
della cincia che t'insegna.
Col becco qua e là le gemme
picchia al mo' che picchi tu.
Va, taglialegna, alle maremme.
tient'a su! tient'a su! tient'a su!

VI
Ha il nido qua e là nei buchi
d'ischie o d'olmi, ove gli garba;
e pensa forse a que' tuoi duchi,
grandi, dalla lunga barba.
Nei buchi erbiti dove ha il nido,
pensa al gran tempo che fu;
e getta ancora il vecchio grido:
tient'a su! tient'a su! tient'a su!

VII
Un'azza è quella con cui squadri
là, nel verno, il pino e il cerro;
con cui picchiavano i tuoi padri
sopra i grandi elmi di ferro.
Tu squadri i tronchi, ora; con l'azza
butti le foreste giù.
Va ora senza più corazza. . .
tient'a su! tient'a su! tient'a su!

VIII
Rimane nella valle il canto.
Sono ormai, le cincie, sole.
La scure dei lombardi intanto
lassù brilla contro al sole.
E sempre il canto che rimane,
giunge in alto alla tribù,
che parte a guadagnarsi il pane;
tient'a su! tient'a su! tient'a su!



L'uccellino del freddo

I
Viene il freddo. Giri per dirlo
tu, sgricciolo, intorno le siepi;
e sentire fai nel tuo zirlo
lo strido di gelo che crepi.
Il tuo trillo sembra la brina
che sgrigiola, il vetro che incrina. . .
trr trr trr terit tirit

II
Viene il verno. Nella tua voce
c'è il verno tutt'arido e tecco.
Tu somigli un guscio di noce,
che ruzzola con rumor secco.
T'ha insegnato il breve tuo trillo
con l'elitre tremule il grillo . . .
trr trr trr terit tirit. . .

III
Nel tuo verso suona scrio scrio,
con piccoli crepiti e stiocchi,
il segreto scricchiolettio
di quella catasta di ciocchi.
Uno scricchiolettio ti parve
d'udirvi cercando le larve. . .
trr trr trr terit tirit. . .

IV
Tutto, intorno, screpola rotto.
Tu frulli ad un tetto, ad un vetro.
Così rompere odi lì sotto,
così screpolare lì dietro.
Oh! lì dentro vedi una vecchia
che fiacca la stipa e la grecchia. . .
trr trr trr terit tirit. . .

V
Vedi il lume, vedi la vampa.
Tu frulli dal vetro alla fratta.
Ecco un tizzo soffia, una stiampa
già croscia, una scorza già scatta.
Ecco nella grigia casetta
l'allegra fiammata scoppietta. . .
trr trr trr terit tirit. . .

VI
Fuori, in terra, frusciano foglie
cadute. Nell'Alpe lontana
ce n'è un mucchio grande che accoglie
la verde tua palla di lana.
Nido verde tra foglie morte,
che fanno, ad un soffio più forte. . .
trr trr trr terit tirit.



I due girovaghi

Siamo soli. Bianca l'aria
vola come in un mulino.
Nella terra solitaria
siamo in due, sempre in cammino.
Soli i miei, soli i tuoi stracci
per le vie. Non altro suono
che due gridi:
—Oggi ci sono
e doman me ne vo . . .
—Stacci!
stacci! stacci!
Io di qua, battendo i denti,
tu di là, pestando i piedi:
non ti vedo, e tu mi senti;
io ti sento, e non mi vedi.
Noi gettiamo i nostri urlacci,
come cani in abbandono
fuor dell'uscio:
—Oggi ci sono
e doman me ne vo . . .
—Stacci!
stacci! stacci!
Questa terra ha certe porte,
che ci s'entra e non se n'esce.
È il castello della morte.
S'ode qui l'erba che cresce:
crescer l'erba e i rosolacci
qui, di notte, al tempo buono:
ma nient'altro. . .
—Oggi ci sono
e doman me ne vo. . .
—Stacci!
stacci! stacci!
C'incontriamo . . . Io ti derido?!
No, compagno nello stento!
No, fratello! È un vano grido
che gettiamo al freddo vento.
Nè c'è un viso che s'affacci
per dire, Eh! spazzacamino! . . .
per dire, Oh! quel vecchiettino
degli stacci
degli stacci! . . .
—stacci! stacci!


Il brivido

Mi scosse, e mi corse
le vene il ribrezzo.
Passata m'è forse
rasente, col rezzo
dell'ombra sua nera,
la morte. . .
Com'era ?
Veduta vanita,
com'ombra di mosca:
ma ombra infinita,
di nuvola fosca
che tutto fa sera:
la morte. . .
Com'era ?
Tremenda e veloce
come un uragano
che senza una voce
dilegua via vano:
silenzio e bufera:
la morte. . .
Com'era ?
Chi vede lei, serra
nè apre più gli occhi.
Lo metton sotterra
che niuno lo tocchi,
gli chieda—Com'era?
rispondi . . .
com'era ?—



Notte d'inverno

Il Tempo chiamò dalla torre
lontana. . . Che strepito! È un treno,
là, se non è il fiume che corre.
O notte! Nè prima io l'udiva,
lo strepito rapido, il pieno
fragore di treno che arriva;
sì, quando la voce straniera,
di bronzo, me chiese; sì, quando
mi venne a trovare ov'io era,
squillando squillando
nell'oscurità.
Il treno s'appressa. . . Già sento
la querula tromba che geme,
là, se non è l'urlo del vento.
E il treno rintrona rimbomba,
rimbomba rintrona, ed insieme
risuona una querula tromba.
E un'altra, ed un'altra— Non essa
m'annunzia che giunge?—io domando.
—Quest'altra! - Ed il treno s'appressa
tremando tremando
nell'oscurità.
Sei tu che ritorni. Tra poco
ritorni, tu, piccola dama,
sul mostro dagli occhi di fuoco.
Hai freddo? paura? C'è un tetto,
c'è un cuore, c'è il cuore che t'ama
qui! Riameremo. T'aspetto.
Già il treno rallenta, trabalza,
sta. . . Mia giovinezza, t'attendo!
Già l'ultimo squillo s'inalza
gemendo gemendo
nell'oscurità . . .
E il Tempo lassù dalla torre
mi grida ch'è giorno. Risento
la tromba e la romba che corre.
Il giorno è coperto di brume.
Quel flebile suono è del vento,
quel labile tuono è del fiume.
È il fiume ed è il vento, so bene,
che vengono vengono, intendo,
così come all'anima viene,
piangendo piangendo,
ciò che se ne va.


Per sempre

Io t'odio?! . . . Non t'amo più, vedi,
non t'amo . . . Ricordi quel giorno ?
Lontano portavano i piedi
un cuor che pensava al ritorno.
E dunque tornai . . . tu non c'eri.
Per casa era un'eco dell'ieri,
d'un lungo promettere. E meco
di te portai sola quell'eco:
PER SEMPRE !

Non t'odio. Ma l'eco sommessa
di quella infinita promessa
vien meco, e mi batte nel cuore
col palpito trito dell'ore;
mi strilla nel cuore col grido
d'implume caduto dal nido:
PER SEMPRE!

Non t'amo. Io guardai, col sorriso,
nel fiore del molle tuo letto.
Ha tutti i tuoi occhi, ma il viso
non tuo. E baciai quel visetto
straniero, senz'urto alle vene.
Le dissi: «E a me, mi vuoi bene?»
«Sì, tanto!» E i tuoi occhi in me fisse.
«Per sempre?» le dissi. Mi disse:
PER SEMPRE!

Risposi: «Sei bimba e non sai
Per sempre che voglia dir mai!»
Rispose: «Non so che vuol dire?»
Per sempre vuol dire Morire. . .
sì: addormentarsi la sera:
restare così come s'era,
PER SEMPRE !

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