Wednesday, September 27, 2006

'l mal de' fiori



Riflessioni in forma di conversazioni
di Doriano Fasoli

"'l mal de' fiori". Conversazione con Carmelo Bene
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it – giugno 2005

In ricordo di Carmelo Bene, regista e autore teatrale e cinematografico, intervista (in gran parte inedita) raccolta nel mese di maggio 2000, in occasione dell’uscita, presso Bompiani, del suo poema "'l mal de’ fiori".

"Mi sento sempre più come qualcuno che si spoglia lentamente per andare a letto... Dopo i concerti, il cinema, la letteratura, il teatro, le tante vite vissute e svissute... Una continua sottrazione, uno svestirsi ininterrotto che ancora pare non finire e che non credo finisca in quanto sto ancora scrivendo. Scrivendo la Voce" – mi disse Carmelo Bene, raggiunto nella sua casa di Otranto, dove ormai viveva per quasi metà dell'anno. Zingaro del teatro, "straniero nella propria lingua" (come amava definirsi), egli aveva appena pubblicato per Bompiani 'l mal de' fiori, un poema (la cui presentazione fu affidata a Sergio Fava) salutato dalla critica più accorta come un testo poetico inarginato, irriducibile a contesti, situazioni, geografie espressive: frontale, sprezzante, verticale rispetto a quel minimo di codici entro cui s'inscrive o si rifrange una lingua poetica. "Che c'entra Baudelaire, se non nel rovesciamento del titolo? Come si potrebbe leggere su qualche rivista", dichiarò Bene, aggiungendo: "Baudelaire è un classico: in quanto tale incommentabile, intoccabile eterno una volta per tutte. Non è sfida all'Autore de I fiori del male e tanto meno al paesaggismo (interiore o esteriore) del secolo appena scorso. È una sfida alla potenzialità del linguaggio, alla possibilità di nominazione di presunte 'cose' che stanno al di fuori del che le 'dice' ".

Bene, tu hai affermato di non essersi mai imbattuto prima di questo "'l mal de’ fiori" in una nostalgia delle cose "che non furono mai" in nessuna produzione artistica (letteratura, poesia, musica). Puoi spiegarti più estesamente?
Sono da sempre stato privo d'ogni vocazione poetica intesa come mimesi elegiaca della vita come ricordo, rimpianto degli affetti-paesaggi, mai scaldato dalla "povertà dell'amore", sempre nei versi del poema ridimensionato nella sua funzione di "amor facchino", cortese o no. Riscattato dall'o-sceno demotivato, divino, svuotato una volta per tutte dell'affanno erotico nel suo ossessivo ripetersi senza ritorno.

L'amore è questo quando che s'è stracchi mi si chiudono l'occhi
e 'l sonno è la dimane come a volte
si torna 'ndietro indove s'era stati ch'isso'
forse viventi e trovi 'ncorniciate
gialle fotografie de la svanita
quasi persona 'nsottoscritta stenta de imminome
'Magini gialle stanno e iccome stanno
e tu le fissi che nun ci se' più.

Relegato alle elucubrazioni del Lombroso, il bello/brutto non ha mai sollecitato il sentimento di nessun poeta sempre assillato da una più che smorfiata critica della ragion pratica che, come una veste stregata (camicia di forza), l'ha condannato alla stupidità dell'arte (Rimbaud). Eccettuati certi "privilegi della dannazione" byroniani etc... Malridotti alla menzogna letterata d'un satanismo d'accatto... Questa missione del poeta spessissimo civile-sociale pur se vissuta a volte da qualcuno come disillusione! È un problema? Tutt'altro: non si danno problemi (l'a b c di Gilles Deleuze). Così come in teologia non si danno risposte, ma domande, domande che grazie al cielo continuano sole a divertirmi...

Giornalisti, politici, professori universitari, frigidi calligrafi di testa... pubblicati da storiche case editrici e ospitati in prestigiose collane dove un tempo figuravano John Donne e Juan de la Cruz, Benn ed Esenin...
Secondo te, l'esercitazione poetica è diventata un allenamento di massa?
Sono subissato da infinite mortificanti missive giovanilistiche e no, impregnate di uno sformato verso libero, sintomatiche emulazioni di un qualcosa che i sedicenti autori già da lettori ritengono valore poetico; orrida "voce". Le fonti consacrate dei vati ne sono più che responsabili, dal momento che hanno sempre proposto una "poesia" comunicativa, edificante, a volte satura di decadentismo smidollato, spacciandola impunemente come opera d'arte. Siamo sempre stati vittime d'una poesia che innanzitutto si è sempre beotamente illusa d'essere nel discorso autoriale che tramava. Come se si potesse essere autori di qualcosa! Come se (siamo o no quel che ci manca?) fosse scontato che l'essere parlante sia nel discorso in fieri e non s-parlato dal discorso stesso. Qualunque fare dovrebbe essere un fare altro da ciò che facciamo (anche volendolo nessuno è autore di niente). L'esito non coincide con l'intento come l'effetto non è mai la causa...

Come si può definire, dunque, questo " 'l mal de' fiori"?
È una ricetta farmaceutica di controindicazioni: struttura, dialettica, sociale, prossimo-lontano, il non esserci, eccetera... Non si può che confermarsi "stranieri nella propria lingua". Il plurilinguismo (crogiuolo di idioletti, arcaismi, neologismi di che trabocca il poema) è il contrario d'una accademia di scuola interpreti. È "Nomadismo": divagazione, digressione, chiosa, plurivalenza, eccetera. Il testo intentato è (deve essere) smentito, travolto dall'atto, cioè de-pensato. Poesia è l'Immediato nella ruminazione orale d'uno scritto già estraneo a noi dicenti. Scritto in Voce. Voce come ri-animazione (rigor-mortis) del morto orale che è lo scritto.

Voce mia tua chissà chiamare questo
Mia tua chissà la voce che chiamare
ventilato è suonar che ne discorre
in che pensar diciamo e siamo detti
vani smarriti soffi rauchi versi
prescritti da un voler che non si sa
disvoluto e alla mano intima incisi
segni qui divertiti disattesi
sensi descritti testi
d'altri che morti fiati
dimentichi 'n mia tua chissà la voce
Noi non ci apparteniamo È il mal de' fiori
Tutto sfiorisce in questo andar ch'è star
inavvenir
Nel sogno che non sai che ti sognare
tutto è passato senza incominciare
'me in quest'andar ch'è stato.

Questo " 'l mal de' fiori" è un ventaglio di differenze in che il passato è niente anche laddove si illuse a esser presente. Questa mia esercitazione poetica non è contemporanea non soltanto al quotidiano eterno dell'oggi, ma nemmeno al passato che infatti è dovunque sentito come mai stato. Mai stato presente a se stesso. Da qui la nostalgia paradossale tributata a quanto mai fu. L'arte, infatti, è il resto di che mai fu, sia essa prosa, musica, immagine, architettura che nella sua consistenza ingombrante strazia l'aria siccome svenuta sui gradini di una chiesa magari del Borromini.

Da Sandro Pertini a Eduardo De Filippo a Vittorio Gassman che qualche tempo fa ha dichiarato: "Rispetto la ricerca storica di Carmelo Bene. Rimane il nostro maggior rivoluzionario. Ci riconosciamo, da lontano. Io attore, lui non-attore. Un'algebra". Tanti i tuoi estimatori. Qualcuno ti ha anche detto: "Gli altri chiacchierano, tu parli"...
Indubbiamente voleva dire "Tu sei la Voce, gli altri sono parole". La stessa cosa puoi trovarla bene esaminata sia in un racconto di Poe che in uno di James... Davanti al caminetto, sai, tra una caccia inglese e l'altra... il tepore... senti della gente che chiacchiera; poi a un certo momento t'accorgi se c'è uno davvero che parla... ma quando parla è parlato, non sta conversando, non vuole comunicare niente, non vuole esprimere niente. È la voce, che ha superato la parola, quindi il chiacchiericcio. In Mademoiselle de Maupin di Théophile Gautier c'è una frase divertente: "A volte, nei salotti parigini - chiosa, a un certo punto, l'autore - quando siedo, ahimè, col mio prossimo e qualcuno di esso apre bocca per sillabare non importa che, resto sorpreso, fulminato, come se il cane o il gatto prendessero d'improvviso la parola". Non è poi male questa considerazione, non ti sembra?

Adesso, parliamo di alcuni nomi a te cari: di Edgar Allan Poe, appunto, o del "poeta maledetto" Tristan Corbière, o dell'autore di "Moralità leggendarie", Jules Laforgue (del quale invochiamo un Meridiano Mondadori, al più presto). Tre brevi esistenze, segnate dall'infelicità...
Poe è un grandissimo umorista e immenso poeta, soprattutto, dato che scrive in versi... Laforgue è tutto... Laforgue e Corbière sono quelli che mi sono più vicini o io sono più vicino a loro... non c'è prima o dopo, se non c'è il Tempo...

Dici di aborrire cinema e teatro, pur appartenendo alla società dello spettacolo: come lo spieghi?
Aborro nella società dello spettacolo, come credo d'aver ripetuto mille volte, tutto quello che si dà in rappresentazione. Qualunque forma di rappresentazione sono formulette, trovatine, confitures (regie, eccetera)... Questo imbellettamento che ha fatto anche tanta saggistica sulla letteratura, sui classici... Come un girare intorno ad un obitorio, che è poi la situazione editoriale attuale. Quindi il teatro è l'immagine, è volgare... in nome di dio!... non è l'occhio il dono più bello, è l'orecchio semmai. È il suono che ci pervade, noi siamo suono.

Perché trovasti una profonda intesa culturale proprio in Gilles Deleuze, il quale, occasione la sua "prima" del "Manfred" alla Scala, t’additò come "l'uomo che ha proposto e vinto nel tempio della musica la sfida del 'modale' "?
Era come un fratello maggiore, per me, Gilles Deleuze. E, come me, era un autodistruttore, un de-pensatore, uno che cercava di de-pensare. Lo considero la più grande macchina pensante del nostro secolo, Gilles. È stato fatale che ci incontrassimo. Ma ci metto anche Klossowski, Foucault, ci metto dentro anche Lacan, ma con Gilles in particolar modo, perché ha saputo filtrare l'empirismo, ha saputo filtrare tutto, Kafka o la letteratura minore. Il suo libro Logica del senso è un capolavoro, senza entrare nello specifico (su Nietzsche o su altre questioni più squisitamente filosofiche, comunque anti-heideggeriane). Proprio il saggio che lui scrisse su di me si chiude sul fatto che la coscienza è una cosa da travalicare. La coscienza pura non ha niente a che fare con la coscienza applicata...

"I giornali sono pieni di sacrifici umani: li inscatolano, li rendono accettabili - crimini, incidenti, guerre - per i loro lettori; in un certo senso li ritualizzano, li disciplinano (con la collocazione, il commento), dopo il punto lavano l'altare, o la pista, e tutto è pronto per ricominciare, anche sulla stessa pagina, con nuove vittime e nuovi sacrificatori (...) Come può una gravida leggere un giornale quotidiano senza abortire subito?": sono parole di Guido Ceronetti.
Per non parlare dei supplementi culturali, ormai ridotti al lumicino, affollati di cattedratici e di "mezze tacche" della cultura ufficiale...
Carmelo Bene: perché la stampa è sempre stata uno dei tuoi bersagli preferiti?
Sono d'accordo con Derrida: libertà non di stampa ma libertà dalla stampa. Perché la stampa informa davvero sempre i fatti ma non informa mai sui fatti.

Doriano Fasoli

4 Comments:

Blogger Al said...

ma che sei scemo?! a sto punto regalame er libro!

14:34  
Blogger lebo said...

guarda che era per fra!stupida!

17:48  
Anonymous Anonymous said...

scusa cara

14:31  
Blogger emanuelepiera said...

sempre a litigà... io per esempio preferirei un bignami, un riassuntino veloce, una recensione

16:26  

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